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Quella che ti racconto è la mia storia

10/13/2020

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Oggi voglio condividere con voi una piccola storia - della quale avevo citato una parte nell'articolo "la mia visione sulla fotografia" del mio blog - che ho scritto circa un anno fa, ed è stata pubblicata sull'editoriale Confidenze del 29 gennaio 2020. La mia storia... 
foto ©Miriam Ognibene - riproduzione riservata
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Quella che ti racconto è la mia storia, senza filtri aggiunti.
​Sono una ragazza comune, pensa, sono nata nel giorno in cui a quanto pare nascono più bambini, il 16 settembre.
 Sono davanti al mio laptop. Ho una sensazione simile alla nostalgia. La mancanza di quei colori, di quelle curve, del profumo del vento che trascina con sé tutti i suoi odori. Le mie dita, come sui tasti di un pianoforte trasportano il mio pensiero chissà dove... nonostante casa sia dove si conserva l’amore non posso scordare quel legame nato coi miei primi respiri.

Ho riposto le mie speranze nel mio intelletto, tra le braccia di chi amo, in uno sguardo che ricorda il mio e nel contemplare la grinta che animava una tempesta mi sentivo consolata.
 Ogni cosa si porta dietro tante piccole sorprese o inaspettati interrogativi, non c’è dato di sapere cosa possa esserci in ogni approdo, in nuovi luoghi, ogni passo in ogni dove... rimaniamo come stesi al sole ad asciugare, attaccati con mollette ad un filo che seppure ci tiene coi piedi per aria non ci lascia liberi di volare. Arriva un giorno in cui ci si sente pronti e si sceglie. Ecco perché adesso vivo qui.

Ogni giorno mi sveglio, mi alleno, una colazione ricca e mi butto senza pensarci su tutte le cose che devo fare, come un treno veloce, tra gli impegni del quotidiano. Il mio sogno mi ha portato lontano, lì dove non c'è aria pulita, né cielo terso, lì dove però può esistere un futuro per me.

Talvolta vivo giorni in cui tutto sembra aver perso il suo colore, in cui nessuno può darti quel calore che ti manca, gli stessi in cui guardandoti allo specchio provi tenerezza per la tua solitudine per l'unicità di quel profondo scuro che ti affonda negli occhi... sono piccoli capricci di un'anima costretta a tenersi raggomitolata perché non c'è tempo per opporsi e la velocità non ci lascia spazio e sono pensieri che riemergono come boe a segnalare un punto dove ci si deve fermare.

Come tutti mi confondo nella folla della metropoli e talvolta mi perdo ad immaginare le vite degli altri.
Non voglio nascondermi né filtrare la realtà con le mie lenti scure, oggi il centro va in frenesia. Raggi di sole obliqui tagliano la città sempre immersa in quella foschia. Rumori di passi, profumi, musicisti, turisti curiosi, lavoratori... osservatori, senza scopo apparente. Il fumo sale denso mentre osservo quel flusso di mondo passare. Gelati. Macchine fotografiche. Donne ricurve sui sacchetti pieni per riempire case, cassetti, armadi, insoddisfazione. Disegnatori solitari. Colombe. Controluce. Piedi piccoli di cinesi che hanno trovato fortuna dentro scarpe firmate. Luce bianca. Lingue che non comprendo. Nasi rifatti, selfie compulsivi, la luce negli occhi di chi la vede per la prima volta. Solitudini. Cammino tra la moltitudine, qui nessuno sa niente di me. Sono io insieme al mondo. Gli spigoli del sacchetto di una signora distratta mi sbattono contro e con violenza mi riportano alla realtà. La poesia svanisce presto. Le darei un calcio, domani avrò un livido sul braccio. Cerco di recuperare la calma e mi concentro sulle architetture della città, ma il suono del traffico mi distrae subito. La primavera sembra in arrivo. Noi siamo ancora indecisi su come coprirci. Camminiamo stanchi trascinandoci vari strati di vestiti, intenti nelle nostre marce e con l’agenda piena di appuntamenti ci rimescoliamo stretti sui mezzi sempre pieni. Lavoratori, turisti, cacciatori di sogni, sono qui da quasi tre anni eppure quella sensazione di vacanza mi rimane ancora incollata addosso. Leggera come una foglia che cade, così mi sento.

Ho lasciato la mia casa perché stavo per ammalarmi malessere fisico e tormento interiore. Ho passato la vita ad interrogarmi, a psicanalizzarmi e ispezionare ogni emozione per cercare di comprendere da dove scaturisse. Avevo scelto la mia strada o meglio lei aveva scelto me, avevo tentato di sfuggire a lungo da quello che volevo non mi appartenesse ma quando quello che ti scorre nelle vene non puoi cambiarlo non resta altro che concedergli un abbraccio.
Mi piaceva molto quello che pensavo di volere ma in pratica aspettavo sempre il momento di pausa per prendere in mano la camera e fotografare. Quel bisogno diventava ogni giorno più eloquente e non volevo altro che sentire quel click. L'otturatore andava a fondo mentre come una serratura, scatto dopo scatto stavo aprendo quello che avevo nascosto dietro mille scuse. Lentamente e perfettamente a fuoco sbucava fuori dal mio nascondiglio qualcosa che non potevo più contenere. Pulsava nelle mie vene, respirava la mia resa. Prendevo consapevolezza che non era servito a nulla reprimere questa mia naturale propensione.

Lasciai gli studi e mi dedicai unicamente a quella disciplina così affascinante da riempire completamente il mio tempo. La testa piena di immagini da realizzare per riempire quel bagaglio che sapevo mi avrebbe portata altrove. Lei si svegliava e si coricava con me, i miei occhi erano ormai la mia macchina fotografica. Furono anni di produzioni sfrenate, senza alcuna distrazione, totalmente dedita a ciò che sentivo di dover dire.

Poi un giorno iniziarono i problemi. In poco tempo dovetti riconsiderare tutto. Ogni cosa, la forchetta, la penna, lo spazzolino sembravano troppo pesanti. Furono mesi di dolori e riflessione in cui l'unica culla restavano i sogni della mia ricca vita onirica ma sapevo che dormire non era la soluzione. Ci si deve comunque svegliare. Pensavo che tutto si sarebbe potuto spegnere e svanire in poco tempo e non potei accettare quell’ idea.

Come tutti, non sapevo quanto tempo avrei avuto, quanto sarebbe durata la mia vita. Il mio bisogno di indipendenza era troppo importante. Nella mia isola non era abbastanza. Lavoravo con i ritratti e l’arte ma non mi sentivo appagata, né riuscivo ad essere totalmente indipendente. Nei momenti di sconforto mi concedevo un giro tra le colline, nell’entroterra rigoglioso e a tratti arido e bruciato della mia amata terra. Predominano volumi morbidi e sinuosi con varie sfumature di colori verdi e gialli come velluto morbido disteso all'orizzonte. Alberi, cespugli, fichi d'india, ulivi, mandorli, zabbare, canne, erba di vento e il tutto in un silenzioso ordine naturale. Serpeggiando tra le selvatiche strade di campagna inondate da sole e dal vento che agita le creste del grano mi rilasso e respiro. I grilli e le cicale friniscono e il fruscio degli alberi e del grano riempiono di suoni il mio viaggio solitario. Nuvole sparse alternano chiazze di ombre e luci su tutta la sua voluttuosa superficie così da rendere ancora più tridimensionale il mio paesaggio. Riempio i polmoni d’aria che mi pulisce dai pensieri brutti mentre sole e vento mi ricaricano e posso continuare.

Molte cose sono cambiate da allora, ho lasciato i miei spazi, la mia terra, i miei affetti, le mie origini ma ho recuperato il motivo, la salute. La meta è stata posizionata lì dove posso vederla e sono convinta, la raggiungerò. Non ho smesso di fare ritratti e continuo a dire attraverso le immagini. Lavoro con soddisfazione e qui mi sono sentita accolta e apprezzata. Sempre più vicina al mio obiettivo.
Quando mi sento giù, il ricordo di quelle colline, è il combustibile che impedisce al mio desiderio di spegnersi, nel frattempo non ho ancora trovato un nuovo posto in cui respirare. Nell’attesa mi lascio cullare dall’acqua della mia vasca da bagno, lontana dai rumori, nel mio piccolo appartamento e così continuo a galleggiare. Presente e altrove. Silenzio e frastuoni. Dentro. Fuori. Io così dura. Così fragile. Così chiara come la luna. Sveglia nei sogni. Fragore sotto pelle. Rumore nella mente. Scompigliata dentro. Trasportata dal vento come fossi una vela con la pancia in acqua, barchetta nel mio mare spinta dalla corrente, nella giusta direzione, continuo a nuotare. Ordine apparente. Non importa niente. Solo la mente sa.
​Tutto, il cuore vuole.
riproduzione riservata©Miriam Ognibene

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    Questa sono io, Miriam

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    Sono Miriam, ho 40 anni, ma non mi piace ammetterlo. Sono una persona molto sensibile e sincera, esserlo in effetti è più forte di me. Spiritosa, anche se da poco tempo :P 
    Mi esprimo con la fotografia
    sin dall'infanzia. Mi piace scoprire le storie degli altri e ritrarli. Credo nei rapporti umani.
    Credo nel potenziale dell'arte come mezzo per arricchirsi, confrontarsi, l'Arte la ritengo un’entità viva e pensante. Amo le cose belle, lo sport e le cose buone, e, come tutte le donne di sana e robusta costituzione, mi piace spendere soldi.

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